giovedì 28 luglio 2016

La cattura della volpe



Non sono un cacciatore, nonostante viva in un paese popolato di doppiette. Ho sparato durante il corso di sottufficiale con il fucile Garand ed ho lanciato a distanza di sicurezza la classica bomba SRCM in occasione della consueta ed obbligatoria esercitazione sotto le armi. A quindici anni mio padre, peraltro molto cauto nell’uso del fucile, mi sottopose al battesimo del fuoco. Esperienza traumatizzante che a distanza di tempo ricordo con fastidio misto al sorriso: premetti il grilletto della sua doppietta tappandomi con l’altra mano l’orecchio sinistro. Eppure mi è capitato di catturare una volpe. La principessa delle astuzie e dei raggiri intrappolata da uno sprovveduto mezzemaniche. Chi l’avrebbe mai detto! Uno splendido esemplare di volpe che scorrazzava sovrano nei campi prima che incrociasse il paraurti della mia autovettura. Circa venti anni fa, rientravo da Sassari nella tarda serata di un ottobre nuvoloso e cupo. All’improvviso, all’altezza del bivio di Tula, un’ombra si materializza nella carreggiata. Aziono i freni d’istinto. Le ruote strisciano sinistramente sull’asfalto attenuando l’impatto con l’improvvido passante. Mi fermo sbigottito qualche decina di metri più avanti. Non mi capacito come sia avvenuto l’impatto, anche se capisco di aver urtato qualche ostacolo. Parcheggio l’auto nella piazzola a destra e mi avvicino allo sfortunato batuffolo di pelliccia. Sgomento mi accorgo di aver investito una volpe. Indeciso, muovo la coda con il piede e mi accorgo di trovarmi al cospetto di un essere privo di vita. Mentre mi accingo a riprendere il viaggio di ritorno, penso che sarebbe bello mostrare l’esemplare ai miei figli. Afferro incautamente l’animale per la coda e mi rendo istintivamente conto della sua pesantezza. La coda è molto lunga ed il pelo è straordinariamente fulvo sintomo di benessere fisico. La ripongo nel bagagliaio e riprendo il viaggio. I miei figli si trovano a casa dei miei genitori per salutare l’arrivo del loro cugino in paese. Penso possa essere istruttivo delineare le caratteristiche di un animale selvatico dal vivo. Entro in casa e con fare trionfante annuncio di avere una volpe nel cofano. Incredulità e meraviglia negli occhi dei miei interlocutori. “Venite a vedere” soggiungo. Ci portiamo davanti al cofano che sollevo con orgogliosa soddisfazione: “Ma è viva soggiunge mio padre” che si è avvicinato nel frattempo. Faccio in tempo a rilevare un’occhiata che non promette niente di buono ed ad avvertire una sinistra minaccia: il muso torvo e i denti digrignati che emettono una specie di guaito intimidatorio. Rilascio meccanicamente il cofano che si richiude prima che il carnivoro riesca a saltare fuori dalla prigione. Che fare? Le previsioni più catastrofiche comprendono la possibilità che il canide possa devastare l’abitacolo. Occorre fare qualcosa e subito. Il problema presenta due soluzioni quella paterna e quella filiale.  La prima presuppone la soppressione del furbo predatore. Mio padre non si era intenerito nella sua infanzia con le letture delle favole sulle volpi di Esopo o quelle dei fratelli Grimm; pertanto non tollerava che uno spauracchio delle sue greggi fosse rimesso in libertà nel territorio berchiddese. I miei figli, mio nipote e mio cognato, che avevano ammirato la fierezza e la forza delle stupendo esemplare, non accettavano l’idea che fosse soppresso; non approvavano l’eliminazione di un innocente e superbo rappresentante della razza della quale avevano letto ed apprezzato tante intelligenti prodezze. Con mio padre ci dirigemmo alla periferia del centro abitato. Gentili lettori cosa avreste fatto? Ciascuno aggiunga il proprio finale a questo racconto. I films a lieto fine sono quelli più apprezzati dal pubblico.

mercoledì 27 luglio 2016

Un altro ospedale e un altro pezzo di vita









Ho sempre pensato che un breve soggiorno in ospedale sia salutare sotto tanti punti di vista. In primo luogo perché si recupera, o si dovrebbe, la salute perduta. In secondo luogo perché le diverse testimonianze di mali che affliggono volti conosciuti e sconosciuti ti portano a riconsiderare e a rivalutare la fortunata congiuntura di averli evitati. Quando stai male desideri ardentemente recarti presso questo centro di assistenza perché anche la morte in questa sede ha i lineamenti della dolcezza. Infine il centro di cura costituisce un luogo aggregante all’interno del quale scopri un universo sconosciuto costituito di efficienza e talvolta di inefficienza, di preparazione e di sufficienza, di sensibilità e di disattenzione. A pensarci bene ho maturato in questo campo un’esperienza vasta e ramificata: nel tempo ho avuto modo di soggiornare o di accompagnare congiunti in diversi centri di cura in Italia e all’estero: Ozieri, Sassari, Olbia, Nuoro, Cagliari, Udine, Reggio Emilia, Roma, Ginevra costituiscono le città nelle strutture delle quali ho avuto modo di sperimentare differenti tipologie di prestazioni e di servizi ospedalieri.  Sono stato di recente ricoverato presso l’ospedale di Ozieri per un intervento chirurgico. L’operazione prevista inizialmente per fine maggio è slittata a metà luglio per la riduzione dell’operatività delle sale operatorie. Gli interventi vengono effettuati in attesa di ripristino delle sedi solo nella sala di ortopedia. Il reparto di chirurgia è stato allocato nel piano un tempo occupato da ostetricia. Non si capisce perché un reparto che costituiva un fiore all’occhiello della struttura sia stato progressivamente smobilitato. Il letto che mi è stato assegnato era quello occupato da mia moglie alla nascita del mio primo figlio. La struttura del letto è oggi dotata di un telecomando che consente il sollevamento automatico della rete. Potenza del progresso! Pavimenti logorati dall’incedere lento e malfermo di migliaia di degenti negli anni. Intonaci che mostrano qua e là le insidie del tempo. Il personale è gentile e cordiale. I pasti frugali, ma nella norma. Varietà di primi e di secondi che si assottiglia con l’erogazione ai degenti. Primo giorno dedicato ai controlli con grande disponibilità di tempo per conoscere e socializzare con Massimo e con Roberto giovani compagni di stanza. Un paziente della stanza vicina soffre e si lamenta con altissimi e lancinanti urli che si ripetono nella monotonia del tempo che trascorre. “Signor Giacinto cosa c’è che non va”? domandano accorate le infermiere. “Non ce faccio” prorompe, ma la loro presenza e il successivo intervento producono l’effetto di un momentaneo sollievo per lui e per i nostri timpani. Vengo a sapere che un caro conoscente con il quale mi ero soffermato a discutere un mese prima è in fin di vita. Pudicamente mi aveva nascosto la gravità del male che lo consumava. Qualche stanza più avanti è prossimo alla fine un signore conosciuto durante i miei studi ad Ozieri. Mi avvicino alla stanza per un breve saluto, ma mi ritraggo. E’ circondato dai suoi; la stanza semichiusa con le tapparelle abbassate per il riserbo dovuto alle sue condizioni.  Le sue sofferenze e soprattutto il disfacimento del suo fisico mi inducono ad allontanarmi rattristato: questo tipo di angoscia e questa forma di dolore escludono le testimonianze d’affetto. Il mattino seguente vengo accompagnato alla sala operatoria. Ci vado a piedi accompagnato da due infermiere. “E’ la prima volta che vedo un paziente recarsi a piedi in sala operatoria” commenta la prima che trasporta sulla lettiga una signora che dovrà essere operata dopo di me e mi sorride pensierosa e preoccupata. Ci ritroveremo qualche settimana dopo alle medicazioni e il suo volto è radioso e felice. Mi fanno indossare il camice di prammatica ed eccomi in sala operatoria. “Le praticheremo l’anestesia spinale e, pertanto, dovrà inarcare la schiena; sentirà un leggero bruciore”. Eseguo meccanicamente, mentre avverto un progressivo stato di pesantezza e di abbandono della sensibilità delle gambe. L’anestesista ogni tanto mi ragguaglia sull’evolversi della situazione. Al termine, trascorsa poco più di un’ora, vengo riaccompagnato in reparto e avvolto dall’amore dei miei cari. Le visite di alcuni compaesani che hanno saputo dell’intervento mi rallegrano: l’ospedale è un paese nel quale si sa tutto di tutti. L’indomani mi annunciano le dimissioni, ma non riesco ad alzarmi autonomamente dal letto. Ci riuscirò con l’aiuto di mia moglie e di mio figlio. “Mi raccomando niente sforzi” consiglia sorridente il dottor Mundula al momento dei saluti. E’ andato tutto bene e sono felice. Guardo fuori dai vetri delle finestre e riconosco il volo sincopato delle rondini. Sono le stesse che avevo notato al mio arrivo ad Ozieri, all’inizio dei miei studi superiori, e sembrano ridisegnare inattese e singolari percezioni di fiducia sul futuro: mi lascio alle spalle un altro ospedale e un altro pezzo di vita.