mercoledì 14 dicembre 2022

 

Riflessione sul tema di Notte de Chelu: l’Arcobaleno

Un fenomeno atmosferico che ci ha sempre affascinato. Da piccoli rimanevamo attratti dalla perfetta combinazione dei sette colori che suggerivano la fine delle perturbazioni e l’arrivo del bel tempo. La limpida molteplicità delle sue gradazioni si sublima nella luce della pace. Quiete nella natura, felicità tra gli animali, armonia negli animi. Una serenità che attraversa il creato. Lo spavento provocato dal fragore della tempesta si dissolve con il crescente chiarore. L’universo si acquieta al disvelarsi di un magico nastro di tonalità: l’arcobaleno. Esso ripropone la simbologia della stella cometa che guidò i tre Magi al luogo in cui Gesù sarebbe venuto al mondo. Per salvarci. Per pacificare l’umanità. Oggi più che mai. L’arcobaleno nel suo magico caleidoscopio di colori e di emozioni ci sollecita a riscoprire i valori veri della nostra esistenza: la concordia, l’armonia, l’amicizia, la solidarietà, la fratellanza. Stati d’animo che abbiamo rivissuto nella realizzazione del presepe e che speriamo si diffondano sempre più intensamente nella nostra comunità e nel mondo. Per ritornare bambini e per recuperare innocenza e candore. Per sorridere con gli occhi e con il cuore. Per stupirci, ammaliati con lo sguardo rivolto al cielo, a osservare una magia della natura. Per rallegrarci e per deliziarci con le sue leggiadre sfumature. Per contemplare un fascio di luce sospeso nell’orizzonte di ciascuno per lenire le cicatrici della vita.

 

 

 

  

domenica 16 gennaio 2022

In cammino

Un pizzico di orgoglio a stento trattenuto. Un florilegio di emozioni che carezzano gli interstizi più reconditi dell’animo. Non immaginavo un’accoglienza così generosa nei confronti della mia pubblicazione. Sorpreso, ma soddisfatto, ho dovuto procedere ad una frettolosa ristampa per soddisfare le incombenti richieste. Grazie…cento volte! !! A quanti lo hanno sfiorato, lo hanno accarezzato, lo hanno accolto tra le mani e lo hanno esplorato con il cuore. Agli amici, ai parenti, ai conoscenti, ai colleghi, agli ex alunni, a tanti anonimi lettori. A quanti lo hanno scandagliato con profondo trasporto e con personale coinvolgimento. A quanti lo hanno sorseggiato come un cocktail e a quanti lo hanno gustato come un dolce. Grazie a quanti si sono immedesimati nelle storie e, infine, grazie a quanti lo hanno posato sul comodino con il proposito di riprenderne la visione come si fa con le serie televisive. Grazie a chi lo ha apprezzato, grazie a chi l’ha gradito, grazie a chi ha creduto nel suo valore. A coloro che hanno espresso le proprie felicitazioni, a coloro che mi hanno indirizzato informazioni e a coloro che mi hanno suggerito modifiche o variazioni. Grazie a coloro che formuleranno le proprie critiche che saranno accettate come gemme preziose per migliorarlo e… per migliorarmi. Cento volte grazie a chi ha scommesso su un “umile scriba" (cit. Gianni Brera) che ha attinto al calamaio della fantasia e si è messo in cammino alla ricerca …del Graal! Consapevole che “Ogni cammino è un’esplorazione, ogni cammino è una rivelazione, ogni cammino è un rinnovamento, ogni cammino è un cambiamento, ogni cammino è …per sempre”.

venerdì 19 novembre 2021

Morte di un bimbo

Affamato, disidratato, assiderato. Ti sei assopito e sei sprofondato in un sonno eterno. Si narra che la morte per assideramento sia quella più dolce. Forse per te lo è stata. Non lo sapremo mai. Anche se avevamo intuito che il dramma era alle porte. Cariche, reticolati, cani lupo, getti d’idranti, manganelli, odio, disprezzo. Tutti riversati su poveri derelitti. Derisi, scherniti, detestati. Vasi di coccio tra giganti di egoismo. Umanità contro disumanità. Nazionalismo contro cosmopolitismo. Altruismo contro cinismo. Miseria contro opulenza. Al centro della storia consumata al confine tra Bielorussia e Polonia, un viso angelicato dalla tenerissima età. Sguardo sognante mai attraversato dal male e dalla malizia. Occhi perforati dall’inferno della morte perché non raggiunti dalla carità della vita. Proprio nella giornata dedicata a “creare un mondo migliore nel quale le persone possano crescere al sicuro per raggiungere il loro pieno potenziale”. Amaro contrappasso del quale non sei riuscito a comprendere il significato. Non te lo hanno consentito. Si ignora perfino la tua identità. I tuoi genitori, svaniti, forse costretti a una fuga precipitosa. Sappiamo solo che sei siriano e che avevi appena compiuto un anno di vita. Una morte silenziosa colpevolmente ignorata. Qualche flebile cenno sui notiziari la cui eco si dissolverà domani nel vento dell'indifferenza. Senza conforti, senza preghiere, senza onoranze, senza lacrime. Un bimbo ignoto dall'identità anonima che è stata defraudato dei più elementari gesti o delle più semplici testimonianze di carità. Che, proprio per questo, pesa come un macigno nella coscienza di coloro che possiedono ancora un briciolo di pietà.

sabato 13 novembre 2021

Musica de s'anima

 


Una volta poeta sempre poeta. La parafrasi della celebre regola benedettina ben si adatta alla biografia poetica di Gavina Correddu autrice nel 1981 di una raccolta di liriche “Duas paraulas a s’iscuja”. A distanza di trentotto anni la poetessa ripercorre le segrete gallerie del proprio animo per dare alle stampe la nuova raccolta “Musica de s’anima”. A riprova che il sottilissimo filo che lega i poeti con la propria creatività si può dilatare, ma non spezzare. Un intervallo lunghissimo che è servito all’autrice per galoppare con la fantasia recependo e recuperando suoni e rumori, immagini e sensazioni. Mi sono interrogato sulle motivazioni che portano a scrivere poesie oggi. E’ un’operazione ancora attuale? Alcuni ritengono non sia più di moda. Quasi un retaggio del passato. Eppure la parola poesia etimologicamente significa creazione. Scrivere in versi costituisce l’adempimento più alto e più puro per esprimere il proprio vissuto spirituale. Il mondo che ci circonda ci ha resi insensibili, spesso disattenti alle manifestazioni della quotidianità. Siamo abituati a percepire la realtà con il senso della vista che si sofferma sull’esteriorità, sulle apparenze, sulle forme e sulle sembianze. La vita, in questo modo, viene esplorata in maniera superficiale ed approssimativa. Osserviamo, ma non percepiamo l’intima essenza delle cose. “L’essenziale è invisibile agli occhi” affermava il piccolo principe.La poesia, invece, possiede lo stigma dell’introspezione della meditazione e si realizza attraverso la riflessione; presuppone tempi distesi per poter scoprire mondi nascosti e inesplorati e disvelare continenti nuovi; secondo il poeta Ungaretti nasce solo attraverso una profonda “tensione emotiva” che si acquieta attraverso un intenso coinvolgimento. Il poeta annusa, ascolta, sfiora, recepisce le magiche suggestioni che lo attorniano. E’ necessaria, però, una particolare sensibilità per rappresentare poeticamente il firmamento che ci sovrasta. Sentimento questo che è proprio dell’anima. “Il poeta non può prescindere dalla scoperta della propria anima vera” scriveva Giorgio Caproni nella prefazione ad una propria raccolta. Una riflessione introspettiva profonda e accurata per dare forma alle proprie emozioni. Fare poesia è quindi particolarmente attuale perché rappresenta la maniera più efficace per parlare con l’anima alle anime. Considerazioni e riflessioni scaturite spontaneamente al termine della lettura della raccolta di liriche di “Musica de s’anima”. 

Il titolo riecheggia le direttrici portanti dell’ispirazione della poetessa: l’anima e la musica. La prima rievoca cammini in contrade sconosciute, percorsi seminati di gioia e di dolore, orizzonti intrisi di atmosfere tenebrose e spensierate, incontri inaspettati, ferite non del tutto rimarginate. La musica è, a sua volta, l’arte che più si avvicina alla poesia. Il musicista è il poeta dei suoni e dei silenzi elaborati attraverso la propria ispirazione. I versi possiedono le qualità della musica e riescono a trasmettere i propri stati d’animo in maniera più evocativa e potente della prosa. Proprio per questo l’espressione poetica costituisce il più elevato strumento di comunicazione perché sempre rivolto alla rappresentazione delle pieghe più nascoste dei nostri sentimenti ed orientata allo stesso tempo alla raffigurazione di una realtà ricca di sfumature e di sfaccettature.

Gavina Correddu nel suo libro bilingue (italiano e sardo) cerca di percepire la realtà con il cuore. Un cuore generoso e vitale che pulsa leggero e soave; risoluto, però, nel rappresentare le diverse declinazioni che la sua libera ispirazione ci dispensa: l’amore, la vita, la morte, la natura, la pace, la felicità, il dolore, i ricordi dei propri cari, la gioia, la sofferenza, la poesia.

L’amore, in primis, declinato nelle sue multiformi sfaccettature. Amore filiale, materno, coniugale. L’amore che alimenta l’anima e secondo l’autrice “nasce dal mistero di un sorriso tra una ragnatela di sogni scintillanti d’infinito”. Sentimento raccontato attraverso metafore cariche di impressioni, quasi folgorazioni rappresentate con estrema precisione lessicale. L’amore che è anche “la mano di un amico che stringe forte la tua” e si realizza quando “il pianto accorato del figlio si scioglie sul seno della madre” (Linfa d’amore). Versi suggestivi che nascono da una profonda tensione emotiva e si segmentano attraverso intense implicazioni simboliche e significative costruzioni metaforiche.

L’amore per la natura prorompe impetuoso nella lirica “foglie morte”; in essa assistiamo al lento languire delle foglie delle quali “solo la poesia… immortala l’agonia”. Immagini assorte, meditate emergono dal componimento “Nuvole” nella quale ciuffi di ombre attraversano l’orizzonte e “cingono tenere i fianchi del monte come braccia d’amore”. Evocazioni soavi che trasmettono beatitudine; sensazione ripresa e rafforzata nelle lirica in lingua sarda “Pace” definita “veru cunfortu”. Tematiche eterne, care ai poeti di tutti i tempi, sulle quali scocca all’improvviso una scintilla che le accende sprigionando bagliori sfavillanti che illuminano la mente di chi legge.

Ogni poetica è contrassegnata da una rara sensibilità e da un’inconsueta delicatezza. I componimenti sembrano descrivere la leggiadra traiettoria delle frecce scagliate da un provetto arciere che raggiungono il bersaglio della bellezza. Sia quando descrivono Ozieri, paese natio lasciato da giovane sposa che incarna gli incanti e le magie della giovinezza sia quando tratteggiano Monti comunità che l’ha benevolmente accolta. Realtà quest’ultima mitizzata perché rappresenta lo spaccato della maturità: amata al punto da essere definita attraverso una mirabile identificazione “Terra mia”. Alcuni di questi temi erano presenti nella pubblicazione precedente. L’autrice li riprende in questa sua nuova raccolta e ne amplia, con un linguaggio limpido e piano, l’orizzonte poetico.

Costituirebbe, però, operazione velleitaria pretendere con queste brevi note di offrire un panorama esaustivo dei bagliori poetici che emanano dalle liriche e riverberano allo stesso tempo emozioni forti e intense. Ciascuno dovrà approcciarsi alla lettura con i sentimenti propri dei cercatori d’oro: attenzione, concentrazione, tensione emotiva. Stati d’animo che dopo la lettura e la scoperta delle numerose pepite poetiche presenti in questa raccolta hanno determinato nella mia persona stupore, ammirazione ed entusiasmo.

Non è stato, però, necessario scandagliare il greto di un torrente o perforare il solido strato di una galleria sotterranea; è bastato abbandonarsi alla lettura e alla meditazione delle liriche che seguono per scovare preziosità poetiche significative e “prepotenti…che diamante”. Una sensazione di libertà e di leggerezza, un trasalimento che ci ha catapultato nell’atmosfera celeste in un’ideale identificazione con le nuvole mosse dalle brezze mattutine. I palpiti del nostro animo si sono rasserenati e sono sembrati dissolversi i tormenti propri della nostra esistenza.

Perché la poesia, la vera poesia, contiene una musicalità leggiadra che nasce nell’anima quasi per magia e si diffonde nell’universo con sfumature armoniose e leggiadre che ci riconciliano con le cicatrici della vita.

giovedì 19 marzo 2020

La vita e la morte durante la pandemia


E’ difficile abituarsi a u una nuova modalità di approccio alla vita e alla convivenza civile. Dettata, obbligata da immagini raccapriccianti. E’ vero che la morte ci ha sempre accompagnato ed è il destino di ogni essere umano. Mai, però, avremmo potuto immaginare i camion militari incolonnati e impegnati ad accompagnare le bare al cimitero. L’altro giorno un amico mi ha telefonato per comunicarmi la morte di suo padre. Mi ha raccomandato di non andare a trovarlo per le ferree disposizioni in atto. Non immaginavo, però, che i familiari più stretti fossero esclusi anche dalle tristi operazioni della tumulazione. Questa pratica avrebbe suscitato la disapprovazione anche del mondo greco e di quello romano. Gli onori dovuti ai morti costituivano, infatti, un dovere imprescindibile di pietà religiosa. I lutti si elaborano meno amaramente attraverso forme più partecipi di distacco. Qualche avvisaglia però c’era stata. Una decina di giorni a questa parte in prossimità della farmacia ho incontrato una cara conoscente. Eravamo abituati, in queste circostante, a scambiarci impressioni, sensazioni, informazioni. Il chiacchiericcio proprio delle persone accomunate da visioni, opinioni e sensibilità. Il nostro dialogo, per sua volontà è stato molto conciso e stringato. Limitato ai convenevoli tipici dei saluti. Piccolo particolare: ho notato che si manteneva a distanza di sicurezza. Un colloquio breve, ma surreale. Il focolaio in quel periodo era limitato al solo settentrione. La Sardegna appariva un’oasi felice. Mentre mi allontanavo ho compreso che la mia interlocutrice aveva già attivato le precauzioni proprie della paura del contagio. Che oggi dobbiamo fare nostre. Dotandoci degli strumenti di protezione individuale prima di tutto. Dobbiamo, in secondo luogo, rimanere segregati a casa. Solo così possiamo scongiurare l’escalation dei decessi. Ieri abbiamo totalizzato oltre 470 morti. Un record che neanche la Cina, culla della diffusione del virus, ha raggiunto. Evidentemente non abbiamo adottato le misure consigliate. Siamo refrattari per tradizione al rispetto delle regole e pecchiamo di leggerezza e di superficialità. Anche quando ci imbattiamo nei baratri delle tragedie. Crediamo o speriamo che noi possiamo uscirne indenni. “A chi la tocca la tocca” risponde nei Promessi Sposi un inebetito Tonio a Renzo che si avvicina per sincerarsi come sta. Oggi crediamo e confidiamo che tocchi sempre agli altri. Ma gli altri, soprattutto oggi, siamo tutti noi e possiamo venir fuori da questo abisso solo con il concorso di tutti. Una guerra si ripete nei notiziari. I conflitti, però, si vincono con il contributo dagli eserciti. Composti soprattutto dai soldati semplici; che, per conseguire la vittoria, devono stare in trincea. Fuor di metafora, appartati nelle proprie abitazioni. Felici di uscire quando questa immane tragedia sarà finita. In attesa stiamo a casa. Abbiamo sorpreso il mondo facendo leva sulle nostre capacità di lottare e di soffrire. Di vincere quando tutti ci davano per sconfitti. Siamo rinati più forti di prima quando abbiamo fatto squadra. Nello sport, nella vita, nell’arte, nell’economia, nella cultura e nella moda. Il mondo ha bisogno di noi. Della nostra fantasia. Della nostra creatività. Crediamoci, credetemi, restiamo a casa

martedì 17 marzo 2020

Restiamo a casa


Una sensazione strana. Caratterizzata da uno stato d’ansia che non conoscevo da tempo. Controllo l’orologio: le 6.30. Avrei voglia di dormire, ma non ci riesco. Mi trovo immerso in una coltre di silenzio innaturale interrotto dai cinguettii dei passeri che salutano l’alba. Mi affaccio alla finestra e contemplo il sole che si districa tra le spente nuvole marzoline. Una leggera patina di guazza imperla le coperture dei tetti che rilucono rossastre ai primi bagliori. Mi piace soggiornare dietro i vetri e immaginare che la natura assiste, leopardianamente impassibile, alle tristi vicende umane. L’albicocco continua il processo di rivestimento primaverile. I germogli promettono una buona stagione di raccolta. Il melograno delinea foglioline arancioni che rivestono i ramoscelli rinsecchiti dalle brume invernali. Dovrei rimproverarlo perché contrariamente alle sue abitudini, quest’anno ha denotato un tratto del suo carattere che non gli conoscevo: l’avarizia. Sono ghiotto di melagrane e raccolgo con piacere i suoi frutti dolci e croccanti. Non ho potato l’olivo che sovrasta la strada principale. La pianta sembra ringraziarmi con un’esplosione di foglie novelle che attenuano la sensazione di angoscia che mi pervade. Per un istante. Poi ascolto le drammatiche notizie e l’inquietudine riprende inesorabile il suo corso. Figli, amici, conoscenti vicini solo attraverso i pensieri. Le telefonate, più frequenti questi giorni, aiutano a confortarci a vicenda. A volte basta solo ascoltare il tono rassicurante delle loro voci per sentirsi meglio. Mi ripeto e ripeto costantemente che possiamo uscirne. Mi auguro che tutto vada bene. Ce la possiamo fare a fronteggiare questo momento difficile. Ce la faremo. Tutti insieme, Restiamo a casa

domenica 10 febbraio 2019

Ah perché non son io co’ miei pastori?


“Ah perché non son io co’ miei pastori?” con questo verso Gabriele D'Annunzio concludeva nostalgicamente e magistralmente la sua stupenda lirica “I pastori”. Ho amato sempre questi versi che richiamavano le mie radici. Ecco perché vivo intensamente la disperazione dei figli della nostra terra. Figlio di pastore sono stato avviato con mio fratello e mia sorella agli studi superiori prima e all'università poi. Allora si poteva. Mio padre, a differenza del “padre padrone” descritto da Gavino Ledda non volle che abbracciassi questo percorso di vita. “Troppo duro, pesante e faticoso” diceva. Per questo motivo non mi insegnò a mungere, a curare le pecore, a tosarle, a riconoscerne benessere o malessere fisico. Lo appresi successivamente con tanta forza di volontà. E non fu semplice come si potrebbe immaginare. Il mio genitore era infaticabile nella sua attività mutevole e complessa: scuoiare un agnello, sezionare le parti del maiale, preparare gli insaccati, spaccare e accatastare la legna in previsione dei rigori invernali. Un sacrificio individuale e solitario e per questo spesso sconfortante e deprimente. Occorrevano doti non comuni: tempra, coraggio, tenacia, carattere, resistenza. Nelle nostre realtà si economizzava, ma tutto sommato si viveva dignitosamente grazie ad alimenti genuini e incontaminati: il pane preparato in casa, i prodotti dell’orto, le carni, il latte e i suoi derivati. Generi di prima necessità che sapevano di purezza e di primitività. Che, comunque, non remuneravano adeguatamente le alzatacce dal tavolo i giorni di Natale, di Pasqua e delle feste comandate per gli obblighi imposti dalla presenza e dalle esigenze del bestiame: mungitura, foraggi, mangimi, attenzioni, vigilanza e controlli. Le uscite quotidiane alle prime luci dell’alba ed i rientri senza orari predefiniti. Alle preoccupazioni di mia madre per i suoi quotidiani ritardi corrispondevano imprevisti nuovi, emergenze insolite: assistenza al parto di una pecora, sistemazione di una recinzione precaria, transumanza protratta più del previsto. E che dire delle avversità che sconvolgevano la vita dei campi. Pecore sgozzate in più occasioni dai cani, agnelli razziati dalle volpi, annate amaramente siccitose, incendi improvvisi ed angoscianti, gelate tremende e devastanti. A tutto questo si aggiungeva l’impossibilità di fruire di un giorno di ferie durante l’anno. Rinunce e sacrifici affrontati con serenità e con dignità. Un sottile velo di malinconia lo attraversò quando consegnò il bestiame ad un giovane allevatore che lo acquistò consapevole della la bontà e della qualità del nostro gregge. Per inciso ricordo che il prezzo del latte ai primi del 1980 era pari a 1500 lire al litro (75 centesimi circa di euro). Sono trascorsi quasi quattro decenni. Un’eternità economica e sociale. Oggi ci si ribella alla miseria dei 60 centesimi per un litro di latte e si vorrebbe ottenere almeno un euro. E qualcuno ancora non capisce i motivi di tanto malcontento. Incomprensibile per una parte della pubblica opinione la battaglia di civiltà volta a difendere la propria dignità e la propria identità. Resistere per esistere e per sopravvivere. Senza se e senza ma. L’unica soddisfazione deriva dalla constatazione che mio padre è deceduto senza aver vissuto questa tremenda, tragica, drammatica vicenda. Ne avrebbe sofferto terribilmente. Forse non avrebbe superato questa devastante esperienza. Per questi motivi sono idealmente, affettivamente e dannunzianamente vicino ai pastori. “Ah perché non son io co’ miei pastori?”